Una delle finalità che perseguiamo quotidianamente, come formatrici e come coach, è quella di guidare le persone che rivestono un ruolo di conduzione a relazionarsi in modo efficace con i membri del loro team. Un obiettivo certamente ambizioso, ma spesso frainteso, dato che non ha nulla a che vedere con la trasmissione di un ricettario standardizzato. Inutile illudersi: a prescindere dalle difficoltà che richiederebbe la realizzazione di un simile “menù pronto per l’uso”, l’imitazione dei candidati si tradurrebbe in una forma di adulazione poco costruttiva, producendo come unico risultato un arricchimento dell’ego delle sottoscritte.
La leadership è tutta un’altra storia. Una storia costretta a sgomitare per difendersi dai falsi miti che la stanno snaturando, riducendola a un miscuglio di episodi triti e ritriti che, pur annoverando nei loro casting numerosi attori di spicco, si costruiscono sempre attorno ai medesimi intrecci. Intrecci che, inevitabilmente, finiscono per avere il sapore della “solita minestra”, cristallizzandosi nel vecchio e ormai noto adagio: “Leader si nasce, non si diventa!”. E così spalanchiamo gli occhi di fronte alle vicende che narrano dei poteri quasi magici detenuti dal compianto genio della Apple, Steve, Jobs, subiamo il fascino di Gordon Gekko, lo spregiudicato protagonista del capolavoro di Oliver Stone “Wall Street, Money never sleeps”(2010) e restiamo fermamente convinti che nessuna creatura terrena potrà mai formulare un sogno più sfavillante di quello espresso da Martin Luther King nel suo indimenticabile“I have a dream”. Che dire? I protagonisti apparentemente cambiano volto, ma la trama resta la stessa, così come le convinzioni che la alimentano e che continuano a etichettare la leadership come un dono iscritto nel codice genetico di una élite di “fortunatissimi” o, addirittura, come una competenza tramandabile di generazione in generazione.
All’estesa diffusione di questa “ideologia romantica”, si aggiunge il fatto che numerosi dirigenti hanno una scarsa consapevolezza di loro stessi. Questo “difetto congenito” si riscontra quotidianamente, nonostante gli addetti ai lavori continuino a fare il possibile per nascondere la testa sotto la sabbia nella vana speranza che i loro atteggiamenti poco manageriali vengano ignorati o cadano nel dimenticatoio. Io stessa, da bambina, per sfuggire all’indignazione dei miei genitori in seguito all’ideazione (e ovviamente alla messa in atto!) dell’ennesima marachella, ero solita eclissarmi nei luoghi più improbabili nella speranza di passare inosservata. Con il tempo ho capito che questo stratagemma era decisamente poco produttivo: per quanto cercassi di dileguarmi, avevo sempre i loro sguardi (e il battipanni!) puntati addosso! Una vera scocciatura: la stessa con la quale ogni dirigente moderno dovrebbe abituarsi a fare i conti, visto che recenti studi antropologici hanno messo in evidenza che occupare un ruolo di conduzione equivale a sedere sul trono del cosiddetto “maschio alfa”. Per inciso: se un babbuino guarda il suo “capo stirpe” in media ogni venti secondi, parallelamente, i sottoposti osservano con maggior attenzione e con più frequenza i loro leader di quanto gli stessi non si preoccupino di fare.
In accordo con i risultati scaturiti da queste ricerche, la psicologa americana Susan Fiske sottolinea: “L’attenzione è rivolta verso i livelli superiori della gerarchia. Le segretarie sanno più cose sul conto dei loro capi che non viceversa; i dottorandi sanno più cose sul conto dei loro tutor che non viceversa. Gli individui prestano attenzione a chi controlla il loro rendimento nel tentativo di predire e possibilmente influenzare ciò che accadrà loro.
” Ma non è tutto: è provato che, se confrontati con intenzioni dirigenziali nebulose, i membri di un team preferiscono optare per previsioni catastrofiche, piuttosto che figurarsi degli scenari positivi che potrebbero dissolversi in un’evanescente bolla di sapone. Un comportamento apparentemente anomalo, ma utile per preservare lo spirito di autoconservazione. Un meccanismo di difesa che affonda le sue radici nel passato, ma che presenta ai leader moderni un conto salato nel presente, dato che, sempre più spesso, si ritrovano spiazzati dalle rimostranze di collaboratori angosciati, irritabili, delusi e da un livello di turn over senza precedenti.
Sulla scia di queste considerazioni, il nostro intento è quello di favorire un clima affiatato all’interno del quale ciascun dirigente possa prendere coscienza del fatto che la “leadership comincia e non finisce al vertice di un’organizzazione” e che ciascun individuo, facendo leva sulle sue risorse interne, ha la possibilità di guidare i suoi collaboratori adottando uno stile di conduzione autentico ed efficace. Un modus operandi che non scaturisce da un manuale farcito di formule standardizzate. Forse meglio così, visto che, come sosteneva Albert Einstein: “Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.
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