Come reagireste se un tizio dall’aspetto trasandato e dall’alito maleodorante, si avvicinasse a pochi centimetri dal vostro visino pulito e curato per chiedervi delle indicazioni? Sono certa che, dopo il tentennamento iniziale, il vostro spirito misericordioso avrebbe la meglio. Anche se, forse, sarebbe più corretto parlare di “istinto di sopravvivenza”, visto che per interagire con simili personaggi (soprattutto di prima mattina), il pelo sullo stomaco va necessariamente affiancato a una capacità polmonare ampiamente al di sopra della media. Per inciso: sfido (quasi) chiunque a trattenere il fiato per una durata superiore ai dieci secondi, magari sfoggiando pure un sorriso sincero e caloroso, senza farsi prendere in castagna. Che dire? Se non siete dei mezzofondisti, dei sub professionisti o dei venditori assetati di provvigioni, siate perlomeno tempestivi nel contattare il 144! Umorismo macabro a parte, scommetto che, nel giro di pochi secondi, il vostro cervello sarebbe in grado di elaborare delle spiegazioni talmente esaustive da far invidia gli algoritmi di Google Maps. Se non altro, per liberarvi dal tizio ignaro dell’esistenza di spazzolino, dentifricio e doccia schiuma!
Ma cosa succederebbe, se il medesimo quesito fuoriuscisse da una bocca ben disegnata e profumata di anice stellato? Cambierebbe qualcosa, se a interpellarci fosse una giovane donna dal fisico mozzafiato? O il toy boy della porta accanto? Se le risposte a questi interrogativi sono indiscutibilmente scontate, non si può dire altrettanto delle motivazioni che le sostengono.
Secondo gli studi condotti dal noto psicologo americano Albert Mehrabian, la credibilità umana è riconducibile solo nella misura del 7% a fattori strettamente contenutistici, ovvero a quello che diciamo. Il restante 97% si rifà all’ambito della comunicazione paraverbale (intonazione, qualità della voce, suoni…) e, naturalmente, al vasto e misterioso bacino del non verbale (gestualità, mimica, linguaggio del corpo…).
Se siete convinti che questa breve dissertazione teorica non abbia altro merito, se non quello di evidenziare l’ennesima vittoria schiacciante della forma sulla sostanza (sottolineando quanto sia straordinariamente più piacevole fornire delle indicazioni stradali al sosia di Gabriel Garko, piuttosto che a quello di Dario Argento), forse vi sfugge che lo stesso concetto vale anche per il linguaggio. In fondo, le parole che impieghiamo - alla stessa stregua di abiti, accessori, gioielli, colpi di sole, filler, botulino e chi più ne ha più ne metta - altro non sono che degli “imballaggi”: delle confezioni che possono risultare più o meno gradevoli sul piano estetico. Ed è proprio per questo che vanno selezionate con cura! Lo sanno bene consulenti d’immagine e commercianti, ma anche responsabili del personale, fiduciari e avvocati. Comprereste mai dei sandali di Jimmy Choo, stipati in un sacchetto di plastica appiccicoso, pagandoli a prezzo pieno? E che dire di una cintura di Hermes, abbandonata in un cestino stracolmo di cianfrusaglie intrise di muffa? Per lo stesso motivo è provato che, alla “segretaria” “gentile”, “svelta” e “che parla con tutti”, si predilige “un’assistente di direzione” “cordiale”, “determinata” e con “una spiccata attitudine al lavoro di squadra”.
Che siate manager, casalinghe, veterinari, impiegati amministrativi o liberi professionisti, poco importa: in una società permeata dalla cultura del profitto e votata all’edonismo radicale, sarebbe un autogoal clamoroso trascurare la centralità del linguaggio: sia come strumento di persuasione, sia come mezzo per incentivare sentimenti positivi e profondi, fautori di legami autentici e duraturi.
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